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LAURENT LAFOLIE, ALDILÀ DEL RITRATTO

Francia – Parigi

È una delle sensazioni più strane, indefinibili, un nonsoché di imbarazzante, che ci abita quando guardiamo gli occhi dei volti fotografati da Laurent Lafolie. Un tentativo vano, del resto, visto che risulta impossibile fissare questi sguardi fugaci. E per una buona ragione: non appartengono a nessuno, o meglio, sono la somma di più sguardi. Frutto della sovrapposizione di centinaia di volti fotografati con una macchina fotografica attraverso uno screen capture analogico, questi “volti” sembrano disintegrarsi, scomparire così come ci appaiono, o trasformarsi, un po’ come l’insondabile Gioconda: “raggiungere l’universalità del volto diffrangendola in un’infinità di altre possibilità”, tale è infatti, secondo Marguerite Pilven, curatrice della mostra, la “ricerca paradossale” perseguita dall’artista che, per evidenziare l’ambiguità dell’immagine fotografica sospesa tra presenza e assenza, gioca con l’audacia e la manualità della sua materialità. Così le sue stampe per smaltatura con smalti al platino e al palladio su un piatto di porcellana bianca che conferiscono ai volti fantasma immortalati una presenza, una “corporeità” tanto più inquietante in quanto artificiale…

litofanie

È, analogamente, per “interrogare […] questo supporto dell’apparenza che è il mezzo fotografico”1 che nella sua serie UN Laurent Lafolie fa apparire i suoi volti stampandoli a pigmenti su fili di seta. “Tessendo i volti con un unico filo di seta tinta, passato dall’alto verso il basso in una cornice […], l’artista crea una cornice che alterna vuoti e pieni. Attenua così l’opposizione tra presenza e assenza, così prepotentemente sentita di fronte alla rappresentazione di una figura umana”1. Nelle sue litofanie è la luce che, attraversando una sottile lastra di porcellana incisa, viene a rivelare i volti. Volti nascosti da giochi di mani, quasi a significare allo spettatore la necessità di “un’altra percezione dell’immagine” e a spingerlo a “cercare la propria immagine”2.

Se il suo lavoro in venti pannelli, prodotto stampando pigmenti su lastre fotopolimeriche incise e fogli washi, appartiene al registro del paesaggio, procede da questa stessa ricerca: intitolata L’origine delle immagini, questa composizione “chiama anche lo spettatore a produrre la propria sintesi, sfuggendo così alla fissità del singolo punto di vista”. 1

  1. Marguerite Pilven, curatrice della mostra.
  2. Citazioni dell’artista tratte da un’intervista realizzata il 6 ottobre 2016 da Anne-Frédérique Fer disponibile come podcast su France Fine Art (revue.francefineart.com)

STÉPHANIE DULOUT

Fino al 29 luglio

Galerie Binôme

19, rue Charlemagne, Parigi IV